C’era un forte odore di ferro, sudore e sangue.
Goccioline rosse scivolavano via dalla roccia. Il suo corpo, ridotto a uno scheletro con un manto di pelle, non osava muoversi. Gli occhi, leggermente aperti, o chiusi, guardavano senza batter ciglio il cielo limpido e vasto che si estendeva sopra di sé. Il sole, incandescente, gli seccava la pelle e il respiro.
L’avresti detto morto, se non fosse per quel lento movimento del petto che andava su e giù. Solo il rumore del vento a volte rompeva quel silenzio che si annidava in quegli immensi spazi. E sarebbe rimasto volentieri così per l’eternità, incatenato a una roccia in cima al mondo, a guardare come il mondo andasse avanti senza di lui, ma il destino voleva che soffrisse.
Un mostro alato, grande quanto la sua fame, volteggiava sopra la testa del titano, in un cerchio che tornava sempre su sé stesso. Quando lo stimolo pungeva, la bestia scendeva giù in picchiata, per reclamare quel che gli era stato generosamente offerto. Il rapido battito d’ali giungeva all’orecchio del titano che, risvegliato dal terrore, si divincolava come una bestia braccata. Il rapace affondava i suoi artigli sulla nuda pelle e, indifferente alle urla e ai movimenti disperati del titano, iniziava a punzecchiare il ventre, penetrando vorace nella carne; affondava il becco, sempre più in profondità, come chiodi nella croce. Il titano urlava, riempiva di dolore quell’aria vuota di montagna, pregando che finisse tutto presto. Il corpo si contraeva, come acqua ghiacciata. Il becco penetrava sempre di più, alla ricerca dell’organo desiderato. Si infilava, premendo con forza, strappando e lacerando la carne dura. Infine giungeva al fegato, che cominciava a strappare pezzo per pezzo, mandandoli giù con la soddisfazione dell’appetito.
Il sangue colava dalle ferite come lava da un vulcano, scivolava via sulla roccia, gocciolando. Delle lacrime che scendevano più per disperazione che per dolore, si confondevano in quel lago rosso. Una volta finito il suo banchetto, l’uccello si guardava attorno, attento che nessuno l’osservasse, e volava via, alla ricerca di una fonte dove bere e pulire il becco insanguinato.
Lasciato alla sua vergogna, il titano poteva tornare a respirare, un’aria che però era irrespirabile. Il buco sul ventre, pian piano, si richiudeva, ma quel dolore non si sarebbe mai più ricucito. Un sospiro, che faceva tremare il corpo come un mucchio di foglie, e si lasciava andare, noncurante di essere ancora qualcuno, qualcosa, di avere una vita, buttata su una roccia pregna del suo sangue. Tornava a guardare il cielo limpido e, emettendo dei lamenti quasi impercettibili, sembrava dire:
“Dimenticato da dei e umani, muoio vivendo, perché loro possano vivere la loro morte.”